La flessibilità in Cina è una costante. Non solo nella vita di tutti i giorni, ma anche dal punto di vista lavorativo. Ho un amico che quando viaggia in Cina per lavoro di solito riceve programmi dai suoi colleghi in loco per il giorno stesso e non oltre. Dove quelli del giorno stesso sono regolarmente stati fissati quella mattina.
Un aspetto controverso, è il fatto che per i contratti di lavoro (in misura variabile) non vale la regola “carta canta”, bensì possono essere soggetti a modifiche in corso d’opera. Con notevoli problemi in ambito internazionale, quando si intende far cooperare aziende ad esempio tedesche e cinesi, con concetti di regolamentazione del lavoro completamente diversi, e non solo.
La professione dell’insegnante in Cina è molto richiesta, specie se di inglese o tedesco. Un’amica è stata assunta senza troppi giri di parole da una scuola di lingua, promessa di un contratto di due mesi come insegnante di tedesco, che però tarda ad arrivare. Dopo una settimana dall’inizio delle sue lezioni, riceve una telefonata dall’insegnante che le aveva procurato il lavoro, che agitata le dice di doverla lasciare a casa, perché la sua assunzione non era stata ancora discussa con il direttore della scuola stessa, che una volta scoperta l’azione illegittima, si era infuriato. Così la mia amica ha rinunciato al lavoro e ripreso a fare i suoi piani per i mesi successivi.
La mia breve esperienza di lavoro in Cina mi ha fatto scoprire diversi aspetti interessanti e anche problematici, che prima di allora avevo imparato a conoscere solo sulla carta. Un punto saliente è il fatto che non avvenga un accurato e regolare scambio di informazioni tra i membri del personale di un azienda. Tu pensi che se in ufficio succede qualcosa di nuovo, i tuoi colleghi ti avviseranno, di modo che tu possa orientarti di conseguenza nel caso qualcosa possa andare ad intaccare il tuo lavoro.
E invece no. In realtà non so se i lavoratori cinesi hanno la predisposizione a carpire quante più informazioni possibili in ogni momento, dato che hanno l’abitudine di non condividerle. O se invece è semplicemente un modo di fare consolidato, e ognuno che badi ai propri interessi deve cercare in prima persona di “procacciarsi” le informazioni che lo riguardano e restare aggiornato su quello che concerne il suo lavoro.
Fatto sta che un giorno arrivo in ufficio, accendo il computer come di routine e investo un quarto d’ora del mio tempo per cercare di risolvere un problema di accesso al sistema. Quando finalmente mi decido a disturbare il mio capo per chiederle soccorso, con voce trasognata mi risponde: “Ah, ma ieri pomeriggio abbiamo cambiato tutte le password”. E io mi dico, cosa aspettate a condividerle con i vostri collaboratori?
C’è una voragine tra il modo di concepire e organizzare il lavoro nelle ditte cinesi e in quelle internazionali, o per lo meno nella maniera in cui è abituata una persona che ha lavorato in Europa. I cinesi sono disposti a fare straordinari non pagati e passano una abnorme quantità di tempo in ufficio, durante il quale però si chiacchiera anche spesso e volentieri, si prende il tè e si iniziano le pause pranzo in anticipo per evitare la coda in mensa o al ristorante.
Mentre un italiano in genere cerca di non portarsi il lavoro a casa, o per lo meno di separare la vita lavorativa da quella privata, in Cina le due realtà talvolta sembrano quasi coincidere. Questo è un paese in cui si vive per lavorare, dove la gente passa anche la domenica in ufficio a portare avanti del lavoro e la maggior parte dei lavoratori autonomi lavora comunque sette giorni su sette, dato che la domenica non è giorno festivo.
Per chi passa così tanto tempo sul posto di lavoro poi, il tempo si dilata a tal punto che gli si dà quasi meno valore: quindi risulta anche difficile gestirlo in maniera efficace ed efficiente.
Non è ovviamente solo la Cina ad avere una particolare visione del lavoro: in questo come in ogni aspetto della vita di qualsiasi paese si possono riconoscere tracce di un’impronta culturale che determina il modo di pensare e di agire delle persone.
Prendete l’Italia per esempio: togliete al lavoratore italiano le ferie e gli avrete tolto una ragione di vita. Ho conosciuto lavoratori cinesi, soprattutto nel settore del turismo, che hanno rinunciato alle ferie negli ultimi cinque anni e non sanno quando saranno in grado di prendersele.
Le nostre idee (mi piace chiamarle “impronte culturali”) finiscono così per determinare anche le nostre priorità: se per un lavoratore cinese medio, in linea di massima, il lavoro ha un così forte impatto sulla vita da coincidere in molti aspetti con la quotidianità stessa, allora finisce col venire prima di ogni altra cosa.
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