Io non credo che una volta tornata in Italia avrò tanto presto di che lamentarmi della fila alle poste o in banca, quando una volta arrivato il proprio turno per lo meno le cose si sbrigano. Da quando sono qui ho preso l’abitudine di mettere sempre in conto un intervallo di tempo “cuscinetto”, più di ogni altra cosa quando si tratta di faccende burocratiche. Dalle richieste in apparenza più semplici possono sempre nascere complicazioni inaspettate, per cui c’è da stupirsi quando le cose filano in modo normale.
In Cina la burocrazia si traduce nell’arte del contorsionismo. Letteralmente, c’è da annodarsi il cervello. Qualcuno forse conoscerà quella scena del film di Asterix e Obelix, in cui i due si trovano a dover sbrigare una commissione all’interno della casa dei pazzi. Ecco, questa scena mi è subito venuta in mente in merito all’episodio che sto per raccontarvi: e che i miei compagni tedeschi abbiano fatto esattamente la stessa associazione mentale la dice lunga.
Ho pensato che il modo migliore per dare un’idea di cotanta “impraticità”, fosse di chiarirla con un pratico esempio di ciò che ho vissuto dalla mia prospettiva di studente. Così vi racconto come funziona la procedura di iscrizione ai corsi di cinese per stranieri all’università.
In quanto studente di germanistica risulto iscritta alla facoltà di tedesco dell’università di Pechino. Tedesco, non cinese. In una mentalità così interculturale che a stento riconosce il fatto che io possa non essere di origini tedesche pur studiando in tale facoltà, non dovrebbe stupire che solo agli studenti della facoltà di cinese sia permesso di effettuare un placement-test a inizio semestre, così da essere regolarmente inseriti all’interno di un corso di lingua. Dopo aver cercato di smuovere qualcosa per poter partecipare, ma senza successo, decidiamo di presentarci direttamente a lezione. Dopotutto siamo qui per studiare cinese, diamine.
Nessun problema, tutti gli studenti sono i benvenuti: ma la loro iscrizione ai corsi deve essere formalmente approvata dall’ufficio internazionale legato alla facoltà di cinese. Ok, a dirla così non sembra la facciano tanto difficile. In una pausa di dieci minuti tra una lezione e l’altra salgo al 4° piano in ufficio e chiedo nel mio povero cinese come fare per poter frequentare un corso di lingua. Ho scoperto a posteriori che lì tutti parlano un inglese più che decente, ma sul momento nessuno si è sentito in dovere di venirmi incontro e darmi spiegazioni in modo che capissi meglio.
Dopo un po’ di discussioni tra il cercare di farmi capire e il capire cosa dover fare, mi trovo nelle mani un formulario con tre spazi da riempire, uno per ciascun ente che deve approvare la nostra iscrizione: il dipartimento di facoltà dove studiamo, quello dove frequentiamo il corso di lingua, più quello dell’altro ufficio internazionale, nel campus ovest. Imparo che in termini cinesi “approvazione” significa una firma anonima e un timbro, rigorosamente rosso.
Su certi piccoli cavilli burocratici però sembrano giocarci proprio di gusto. Come ad esempio il fatto che i campi del formulario vadano compilati rigorosamente secondo l’ordine prestabilito. Come se non bastasse sia le facoltà che i due uffici internazionali sono distribuiti tra i due campus in modo tale, che per rispettare l’ordine di compilazione del formulario uno è costretto ad andare a turno una volta di qua e una volta di là. Come una pallina da ping-pong.
Oggi la stessa storia, proprio come nello scorso semestre. In due ore scarse sono riuscita nel mio intento di collezionare timbri e firme sul mio mini-album, rigorosamente spostandomi da campus a campus, da facoltà a facoltà e da un ufficio all’altro. Perché sarebbe stato troppo comodo che timbro e firma fossero da richiedere nello stesso ufficio.
Arrivo all’ultima tappa della mia maratona prima della consegna. Ufficio internazionale, campus ovest: due uffici, provo in quello con meno fila. Mi dicono di provare nell’altro. Passata la fila, nell’altro mi sento dire di tornare nell’ufficio di prima o magari di ripassare il pomeriggio (che è un metodo attestato per dire che il tuo problema non sanno da che parte prenderlo in quel momento, per cui potresti anche tornare il giorno dopo sperando semplicemente di avere più fortuna).
Con un po’ di insistenza dico che di lì a poco sarei dovuta andare a lezione (il che era vero): la tipa si convince, si alza e chiede di persona nell’ufficio adiacente. Torna con il mio foglio magicamente firmato e mi congeda. Ho un dubbio e casualmente mi viene da chiedere: “Sono già a posto così? Non mi serve un timbro allora?” (un timbro rosso fa sempre più bello).
“Ah sì, del timbro mi ero scordata”.
L’esperienza del semestre scorso se non altro mi ha un minimo forgiato.
One Reply to “La burocrazia cinese: un esempio pratico”